domenica 25 marzo 2007

300


Pretendere di fare riscrivere a Frank Miller la storia delle Termopili è come affidare a Robocop il ministero degli Interni.

L'autore di fumetti americano – assurto alle cronache cinematografiche per il discutibile Sin City – conosce tutti i mezzi e mezzucci per tenere avvinto il lettore alla pagina disegnata. Le sue storie, dalla riscrittura di Devil in poi, sono sempre popolate di supereroi tormentati, nemici tanto potenti quanto abietti, tonnellate di violenza, teste rotolanti e valanghe di sangue e sesso, possibilmente perverso. Pura exploitation, dunque, destinata a solleticare gli istinti più bassi, ed è ridicolo affermare altrimenti, anche se per molti appassionati di strisce Miller ha la valenza di un semidio.

Tutti gli elementi dello stile dell'autore di "Batman: anno uno" li ritroviamo in "300", peplumaccio firmato da Zack Snyder con abbondante uso di computer grafica ed effetti speciali. Il film – campione di incassi in America - ha suscitato alte polemiche per i suoi presunti collegamenti con la situazione internazionale.

In realtà leggere in questa graphic novel, scritta nel 1995, una metafora dello scontro tra Usa e Iran è un'operazione capziosa e un po' irritante. Come pretendere che stare seduti due ore di fronte a degli omaccioni depilati in mutande sia il massimo della virilità.

lunedì 26 febbraio 2007

Borat

Cosa sai tu del Kazakhstan?

La comicità demenziale, quando è ben fatta, ha una caratteristica: apre squarci nella realtà, rovescia le prospettive, sospende il giudizio della mente come nemmeno un Gourdjeff avrebbe saputo fare. Chi non ricorda la scena della hostess con la chitarra nell'Aereo più pazzo del mondo? Vale venti sermoni di Osho, almeno.

D'altro canto, in un genere di pura exploitation, è facile cadere nella volgarità fine a se stessa, e non è che per forza si debba dare nobiltà teorica a ciò che nasce esclusivamente per fare soldi.

Ora, da che parte sta "Borat"? Questo finto documentario a basso budget (sottotitolo: Studio culturale dell'America a beneficio della Gloriosa Nazione del Kazakhstan, ma la traduzione non rende fede allo sgrammaticato originale) è prima di tutto un film disgustoso, in grado di mettere in imbarazzo chiunque. Non c'è tema, situazione o parola oscena che Sacha Baron Cohen, il comico inglese che dà vita al personaggio, risparmi al pubblico nella lunga sequela di candid camera che costella il suo viaggio negli Stati Uniti.

Borat è razzista, antisemita (ma Baron Cohen è ebreo), sessista, tragicamente sboccato, e trae il peggio da ogni persona che intervista nel tentativo di mandare in corto circuito i meccanismi del "politically correct". Detto questo, ci sono due modi per vedere il film. Il primo è lasciarsi trascinare nel meccanismo coprolalico, spegnendo il cervello e abbandonandosi ai lazzi. Il secondo è di provare a lasciare perdere l'offensiva volgarità, con la consapevolezza che in realtà è Borat, dall'altra parte dello schermo, a ridere di noi. In fin dei conti, cosa sappiamo noi, del Kazakhstan?

domenica 18 febbraio 2007

La cena per farli conoscere


Un compromesso a volte serve

Essere un "professionista" significa una cosa molto semplice: vivere del lavoro che si svolge. Il dilettante, dal canto suo, lo fa per divertirsi. Niente di male, ma è una cosa un po' diversa. Poi ci sono quelli che si atteggiano: lavorano senza compenso, ma non si divertono (ognuno ha le sue perversioni). Criticano i professionisti, perché vorrebbero disperatamente fare parte della categoria, e l'accusa preferita, di solito, è quella di scendere a compromessi.

Mi venivano in mente queste considerazioni guardando l'ultimo film di Pupi Avati, "La cena per farli conoscere", dove il protagonista Sandro Lanza (Diego Abatantuono) accetta persino di partecipare a un reality show intitolato "Fogne" pur di continuare a lavorare. Lanza non è un santo: mezzo puttaniere, vanesio, totalmente ingestibile, tanto che le tre figlie (Vanessa Incontrada, Ines Sastre e Violante Placido) decidono di organizzargli un incontro al buio per "sistemarlo" dopo un tentativo di suicidio.

Nonostante le buone premesse "La cena per farli conoscere" non è una delle migliori opere di Avati, che pure rimane un gran professionista. Troppo spesso il regista si rifugia nella voce fuori campo per cercare di dare unità alla vicenda, un po' sconclusionata, e troppo spesso gli attori (a parte Abatantuono) faticano a seguire la presunta intensità dei personaggi. Il problema principale è che gli stessi toni di tutta la filmografia del cineasta emiliano si innestano in una vicenda che avrebbe avuto forse bisogno di una chiave diversa. Un compromesso in più che avrebbe reso migliore la pellicola. ( cinemilio.blogspot.com)

martedì 13 febbraio 2007

Le luci della sera

Triste, splendia Finlandia

Recitazione antinaturalistica, paesaggi urbani alieni, gli scantinati di una Helsinki fredda, dura e incomprensibiile come l'atrio di una banca: l'estetica dei film di Aki Kaurismaki è tanto riconoscibile quanto la sua poetica, tutta rivolta a indagare l'animo di chi vive al margine. A volte alle umiliazioni segue il riscatto, come in "L'uomo senza passato".

Altre volte no, ed è questo il caso di "Le luci della sera", un film spietatamente pessimista, quasi manicheo nella rappresentazione dei rapporti di forza tra le persone e le classi sociali. Koistinen, il protagonista, lavora come guardia giurata in un centro commerciale. E' solo, e forse non ha mai avuto una donna. Un giorno viene avvicinato da una ragazza bionda, che gli fa credere di essere interessata a lui. In realtà è una scusa per sottrargli i codici dell'allarme e compiere un furto di cui lo stesso Koistinen verrà accusato.

Ultima parte di un'ideale trilogia dedicata ai perdenti, "Le luci della sera" non è un film facile, né consolatorio. Potrebbe essere un film muto, e infatti si ispira apertamente a Chaplin nella ricerca delle inquadrature, nella regia degli attori e, come è stato fatto notare, nella capacità di concludere con un happy ending triste. Da vedere, sapendo che vi lascerà il magone.

sabato 3 febbraio 2007

La ricerca della felicità

L'incubo americano

Io lo odio Gabriele Muccino. Non solo fa il mestiere che chiunque si occupi di cinema vorrebbe fare. Non solo ha firmato alcuni dei film di maggiore successo degli ultimi anni in Italia. Non solo ha lanciato come attore un parente a cui mancano sette consonanti e due vocali, l'antitesi stessa della dizione. Non solo. No, adesso se ne vola a Hollywood, fa un film con una star come Will Smith e vende una marea di biglietti, al di qua e al di là dell'oceano. “La ricerca della felicità” è il tipico film che un critico non può fare a meno di odiare. E' cinico, manipolatorio, asfittico nella sua riproposizione di tematiche viste e riviste. I sogni degli sfigatissimi eroi di Muccino sembrano usciti da un corso di autostima per corrispondenza. Il padre prima dice al figlio “Se hai un sogno, tu lo devi proteggere. Se vuoi qualcosa, vai e inseguila”, poi finisce in galera perché non ha pagato una multa e il fisco gli rasa a zero il conto corrente. La felicità coincide con una giacca, una cravatta e un lavoro da squalo in un acquario di squali. Un incubo, più che un sogno americano. Però Muccino tecnicamente è un genio, è veramente bravissimo. Riesce a tenere alta la tensione con una storia triste triste di terza mano, la solita sceneggiatura di riscatto del perdente. E poi quanti italiani sono riusciti a girare un film in America dopo Sergio Leone, con una star come Will Smith? Io lo odio Gabriele Muccino.

domenica 28 gennaio 2007

The Prestige

Ossessione e illusione

Ossessione e illusione: i due temi cardine di Christopher Nolan (Memento, Batman begins) rivivono anche in “The Prestige”, thriller ambientato fra i teatri e le malìe della Londra vittoriana. Protagonisti due prestigiatori rivali, Borden e Angier (Hugh Jackman e Christian Bale), uniti dall'ossessione per la propria arte e da un evento luttuoso: la moglie del primo morì durante l'esecuzione di un trucco a causa della colpevole temerarietà del secondo. Decisi a rubarsi segreti e fama i due scatenano una guerra privata per sottrarsi la tecnica del “trasporto umano”, ovvero il passaggio istantaneo da una parte all'altra della scena. Servirà un sosia o una vera magia?

Il film è divertente e vale la visione. La narrazione a piani temporali alternati, i colpi di scena a ripetizione, le atmosfere opportunamente dark e il cast di alto livello (Robert Caine, Scarlett Johansonn e David Bowie sono comprimari di lusso) tengono alta l'attenzione del pubblico fino al “prestigio” del titolo, lo svelamento del trucco. Ma qui, senza bisogno di palesarlo, il meccanismo della sceneggiatura si rompe, e irrompe solenne il nonsense. L'illusione, come può spiegare ogni buon prestigiatore, non c'entra nulla con la magia. Figurarsi con la fantascienza.

domenica 7 gennaio 2007

Giù per il tubo (Flushed Away)


Forma e sostanza

Il mondo dell'animazione è ormai diviso in due. Da un lato c'è chi rimpiange i bei vecchi tempi in due dimensioni, patrimonio di Dumbo, Biancaneve, ma anche di classici moderni come il Re Leone, espressione, si dice, di artigianalità e sentimenti più “umani” Dall'altro ci sono circa sei miliardi di abitanti del pianeta ormai assuefatti alle meraviglie digitali di Shrek e affini. A mettere tutti d'accordo, finora, c'era solo lo studio inglese Aardman, divenuto famoso per la serie di Wallace e Gromitt e per molti altri piccoli miracoli di plastilina interamente realizzati a mano, fotogramma per fotogramma.

Ora anche Aardman ha ceduto alle lusinghe dei pixel e da un lato ciò rappresenta una delusione, dall'altro una sorpresa. “Giù per il tubo”, infatti, è l'opera meno visiva di Nick Park e soci. I computer di Dreamworks, per quanto onnipotenti, non consentono ancora lo stesso impatto del passo uno, tecnica che ha l'età di Méliès e che ha consentito alla “Maledizione del coniglio mannaro” di vincere un Oscar. Allo stesso tempo “Giù per il tubo” è un film molto, molto divertente, ricco dello stesso humour surreale e tipicamente british che abbonda nei precedenti lavori della casa.

Conclusione? La forma non è sostanza: apprenderla significa seguire la via per un significato. Aardman, come un vecchio maestro di arti marziali, può permettersi di trascenderla. Sono in pochi.

barcamp Romagna