X Men 3
L’universo fa dei tentativi. Alcuni possono apparire voluttuosi: labbra rosa, occhi verdi e lunghi capelli corvini. Altri delittuosi: un metro e venti di ascelle sudate. Hanno tutti la stessa dignità, perché in quella slot machine galattica che è il Dna può capitarti davvero di tutto. Una prova d’artista, quando va bene. O una scacchiera a cui manca qualche pezzo, e su cui non puoi vincere mai, quando va male.
Certo, se sei un X-Man hai sbancato. Nei tuoi geni c’è una caratteristica che ti rende speciale, come un supereroe, più o meno. Allo stesso tempo essere speciali non sempre è un bene, attira odio, paura, invidia e desiderio di potere.
La saga degli uomini mutanti creata da Stan Lee giunge al terzo episodio cinematografico sulle stesse basi dei primi due, ma senza più il regista Brian Synger, passato alla Distinta concorrenza per dirigere il ritorno di Superman.
Le minacce orchestrate dal nuovo entrato Brett Ratner (Red Dragon, Rush Hour) sono più sottili: non ci sono solo le controparti malvagie che intendono dominare il mondo, ma anche una fantomatica cura, in grado di ridonare la “normalità” ai geneticamente dotati. Gli X-Men sono belli, intelligenti, ricchi di salute e virtù, ma non sono felici, e considerano l’idea.
Certo, è un pelo più facile scegliere, e farsi paladini della diversità e della tolleranza, quando il tuo “difetto” genetico ti permette di volare, o anche solo di camminare normalmente. Pare che il professor Xavier, unico mutante in carrozzella, nel segreto dell'urna avesse scritto "Si".
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