Traslochi
Mi sono trasferito
Il cinema, in quanto arte, è una chiave per leggere la vita. Per cui parlare di cinema significa parlare di tutto. Di cinemilio, appunto, le recensioni di Emilio Gelosi sulle pagine di settimanali e quotidiani.
Pretendere di fare riscrivere a Frank Miller la storia delle Termopili è come affidare a Robocop il ministero degli Interni.
L'autore di fumetti americano – assurto alle cronache cinematografiche per il discutibile Sin City – conosce tutti i mezzi e mezzucci per tenere avvinto il lettore alla pagina disegnata. Le sue storie, dalla riscrittura di Devil in poi, sono sempre popolate di supereroi tormentati, nemici tanto potenti quanto abietti, tonnellate di violenza, teste rotolanti e valanghe di sangue e sesso, possibilmente perverso. Pura exploitation, dunque, destinata a solleticare gli istinti più bassi, ed è ridicolo affermare altrimenti, anche se per molti appassionati di strisce Miller ha la valenza di un semidio.
Tutti gli elementi dello stile dell'autore di "Batman: anno uno" li ritroviamo in "300", peplumaccio firmato da Zack Snyder con abbondante uso di computer grafica ed effetti speciali. Il film – campione di incassi in America - ha suscitato alte polemiche per i suoi presunti collegamenti con la situazione internazionale.
In realtà leggere in questa graphic novel, scritta nel 1995, una metafora dello scontro tra Usa e Iran è un'operazione capziosa e un po' irritante. Come pretendere che stare seduti due ore di fronte a degli omaccioni depilati in mutande sia il massimo della virilità.
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Cosa sai tu del Kazakhstan?
La comicità demenziale, quando è ben fatta, ha una caratteristica: apre squarci nella realtà, rovescia le prospettive, sospende il giudizio della mente come nemmeno un Gourdjeff avrebbe saputo fare. Chi non ricorda la scena della hostess con la chitarra nell'Aereo più pazzo del mondo? Vale venti sermoni di Osho, almeno.
D'altro canto, in un genere di pura exploitation, è facile cadere nella volgarità fine a se stessa, e non è che per forza si debba dare nobiltà teorica a ciò che nasce esclusivamente per fare soldi.
Ora, da che parte sta "Borat"? Questo finto documentario a basso budget (sottotitolo: Studio culturale dell'America a beneficio della Gloriosa Nazione del Kazakhstan, ma la traduzione non rende fede allo sgrammaticato originale) è prima di tutto un film disgustoso, in grado di mettere in imbarazzo chiunque. Non c'è tema, situazione o parola oscena che Sacha Baron Cohen, il comico inglese che dà vita al personaggio, risparmi al pubblico nella lunga sequela di candid camera che costella il suo viaggio negli Stati Uniti.
Borat è razzista, antisemita (ma Baron Cohen è ebreo), sessista, tragicamente sboccato, e trae il peggio da ogni persona che intervista nel tentativo di mandare in corto circuito i meccanismi del "politically correct". Detto questo, ci sono due modi per vedere il film. Il primo è lasciarsi trascinare nel meccanismo coprolalico, spegnendo il cervello e abbandonandosi ai lazzi. Il secondo è di provare a lasciare perdere l'offensiva volgarità, con la consapevolezza che in realtà è Borat, dall'altra parte dello schermo, a ridere di noi. In fin dei conti, cosa sappiamo noi, del Kazakhstan?
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Un compromesso a volte serve
Essere un "professionista" significa una cosa molto semplice: vivere del lavoro che si svolge. Il dilettante, dal canto suo, lo fa per divertirsi. Niente di male, ma è una cosa un po' diversa. Poi ci sono quelli che si atteggiano: lavorano senza compenso, ma non si divertono (ognuno ha le sue perversioni). Criticano i professionisti, perché vorrebbero disperatamente fare parte della categoria, e l'accusa preferita, di solito, è quella di scendere a compromessi.
Mi venivano in mente queste considerazioni guardando l'ultimo film di Pupi Avati, "La cena per farli conoscere", dove il protagonista Sandro Lanza (Diego Abatantuono) accetta persino di partecipare a un reality show intitolato "Fogne" pur di continuare a lavorare. Lanza non è un santo: mezzo puttaniere, vanesio, totalmente ingestibile, tanto che le tre figlie (Vanessa Incontrada, Ines Sastre e Violante Placido) decidono di organizzargli un incontro al buio per "sistemarlo" dopo un tentativo di suicidio.
Nonostante le buone premesse "La cena per farli conoscere" non è una delle migliori opere di Avati, che pure rimane un gran professionista. Troppo spesso il regista si rifugia nella voce fuori campo per cercare di dare unità alla vicenda, un po' sconclusionata, e troppo spesso gli attori (a parte Abatantuono) faticano a seguire la presunta intensità dei personaggi. Il problema principale è che gli stessi toni di tutta la filmografia del cineasta emiliano si innestano in una vicenda che avrebbe avuto forse bisogno di una chiave diversa. Un compromesso in più che avrebbe reso migliore la pellicola. ( cinemilio.blogspot.com)
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Triste, splendia Finlandia
Recitazione antinaturalistica, paesaggi urbani alieni, gli scantinati di una Helsinki fredda, dura e incomprensibiile come l'atrio di una banca: l'estetica dei film di Aki Kaurismaki è tanto riconoscibile quanto la sua poetica, tutta rivolta a indagare l'animo di chi vive al margine. A volte alle umiliazioni segue il riscatto, come in "L'uomo senza passato".
Altre volte no, ed è questo il caso di "Le luci della sera", un film spietatamente pessimista, quasi manicheo nella rappresentazione dei rapporti di forza tra le persone e le classi sociali. Koistinen, il protagonista, lavora come guardia giurata in un centro commerciale. E' solo, e forse non ha mai avuto una donna. Un giorno viene avvicinato da una ragazza bionda, che gli fa credere di essere interessata a lui. In realtà è una scusa per sottrargli i codici dell'allarme e compiere un furto di cui lo stesso Koistinen verrà accusato.
Ultima parte di un'ideale trilogia dedicata ai perdenti, "Le luci della sera" non è un film facile, né consolatorio. Potrebbe essere un film muto, e infatti si ispira apertamente a Chaplin nella ricerca delle inquadrature, nella regia degli attori e, come è stato fatto notare, nella capacità di concludere con un happy ending triste. Da vedere, sapendo che vi lascerà il magone.
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Io lo odio Gabriele Muccino. Non solo fa il mestiere che chiunque si occupi di cinema vorrebbe fare. Non solo ha firmato alcuni dei film di maggiore successo degli ultimi anni in Italia. Non solo ha lanciato come attore un parente a cui mancano sette consonanti e due vocali, l'antitesi stessa della dizione. Non solo. No, adesso se ne vola a Hollywood, fa un film con una star come Will Smith e vende una marea di biglietti, al di qua e al di là dell'oceano. “La ricerca della felicità” è il tipico film che un critico non può fare a meno di odiare. E' cinico, manipolatorio, asfittico nella sua riproposizione di tematiche viste e riviste. I sogni degli sfigatissimi eroi di Muccino sembrano usciti da un corso di autostima per corrispondenza. Il padre prima dice al figlio “Se hai un sogno, tu lo devi proteggere. Se vuoi qualcosa, vai e inseguila”, poi finisce in galera perché non ha pagato una multa e il fisco gli rasa a zero il conto corrente. La felicità coincide con una giacca, una cravatta e un lavoro da squalo in un acquario di squali. Un incubo, più che un sogno americano. Però Muccino tecnicamente è un genio, è veramente bravissimo. Riesce a tenere alta la tensione con una storia triste triste di terza mano, la solita sceneggiatura di riscatto del perdente. E poi quanti italiani sono riusciti a girare un film in America dopo Sergio Leone, con una star come Will Smith? Io lo odio Gabriele Muccino.
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Ossessione e illusione: i due temi cardine di Christopher Nolan (Memento, Batman begins) rivivono anche in “The Prestige”, thriller ambientato fra i teatri e le malìe della Londra vittoriana. Protagonisti due prestigiatori rivali, Borden e Angier (Hugh Jackman e Christian Bale), uniti dall'ossessione per la propria arte e da un evento luttuoso: la moglie del primo morì durante l'esecuzione di un trucco a causa della colpevole temerarietà del secondo. Decisi a rubarsi segreti e fama i due scatenano una guerra privata per sottrarsi la tecnica del “trasporto umano”, ovvero il passaggio istantaneo da una parte all'altra della scena. Servirà un sosia o una vera magia?
Il film è divertente e vale la visione. La narrazione a piani temporali alternati, i colpi di scena a ripetizione, le atmosfere opportunamente dark e il cast di alto livello (Robert Caine, Scarlett Johansonn e David Bowie sono comprimari di lusso) tengono alta l'attenzione del pubblico fino al “prestigio” del titolo, lo svelamento del trucco. Ma qui, senza bisogno di palesarlo, il meccanismo della sceneggiatura si rompe, e irrompe solenne il nonsense. L'illusione, come può spiegare ogni buon prestigiatore, non c'entra nulla con la magia. Figurarsi con la fantascienza.
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Forma e sostanza
Il mondo dell'animazione è ormai diviso in due. Da un lato c'è chi rimpiange i bei vecchi tempi in due dimensioni, patrimonio di Dumbo, Biancaneve, ma anche di classici moderni come il Re Leone, espressione, si dice, di artigianalità e sentimenti più “umani” Dall'altro ci sono circa sei miliardi di abitanti del pianeta ormai assuefatti alle meraviglie digitali di Shrek e affini. A mettere tutti d'accordo, finora, c'era solo lo studio inglese Aardman, divenuto famoso per la serie di Wallace e Gromitt e per molti altri piccoli miracoli di plastilina interamente realizzati a mano, fotogramma per fotogramma.
Ora anche Aardman ha ceduto alle lusinghe dei pixel e da un lato ciò rappresenta una delusione, dall'altro una sorpresa. “Giù per il tubo”, infatti, è l'opera meno visiva di Nick Park e soci. I computer di Dreamworks, per quanto onnipotenti, non consentono ancora lo stesso impatto del passo uno, tecnica che ha l'età di Méliès e che ha consentito alla “Maledizione del coniglio mannaro” di vincere un Oscar. Allo stesso tempo “Giù per il tubo” è un film molto, molto divertente, ricco dello stesso humour surreale e tipicamente british che abbonda nei precedenti lavori della casa.
Conclusione? La forma non è sostanza: apprenderla significa seguire la via per un significato. Aardman, come un vecchio maestro di arti marziali, può permettersi di trascenderla. Sono in pochi.
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Provaci ancora, Ron(f)
E Pippo. E il principe azzurro. E Obelix. E l'onorevole Bondi. Quando sei una “spalla” non hai nemmeno il privilegio di un nome proprio: la congiunzione ti precede sempre. Per il fulvicrinito Rupert Grint – il celeberrimo Ron Weasley di Harry Potter – deve essere stata una ghiotta occasione. Un film da protagonista per uscire dall'ombra del maghetto con gli occhiali. Hermione guardami, ci sono anch'io.
“In viaggio con Evie” è il tipico romanzo di formazione, al centro del quale figura il timido quasi-diciottenne Ben, figlio unico di un pastore anglicano e di una madre bacchettona che predica bene e razzola un po' peggio. Animo poetico, sguardo spiritato, il ragazzo si trova a fare da assistente a un'anziana attrice shakespeariana beona e scurrile, che lo costringe ad accompagnarla in un tragicomico viaggio fino a Edimburgo. In Scozia Ben scoprirà l'amore fisico e il piacere di decidere con la sua testa.
La pellicola scorre leggera e british, un po' troppo garbata, senza mai risolvere davvero i climax che accumula. Si capisce come il regista Jeremy Brock abbia compiuto un viaggio a ritroso nella sua biografia e all'ultimo momento abbia perso il coraggio di infierire. In più, come chiarisce il titolo italiano, la vera protagonista del film è Julie Walters, una “Evie” tanto antipatica e debordante quanto irresistibile.
Grint non fa una malvagia figura, ma a tratti lo si dimenticherebbe, se fosse possibile ignorare il semaforo rosso che si porta in testa. Hermione, insomma, sarà per un'altra volta.
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Tutto il resto è video
E' inutile scandalizzarsi e atteggiarsi a puristi. Se “Anplagghed” è primo nella classifica dei film di dicembre una ragione ci sarà. E' evidente che la riproposizione su pellicola dell'ultimo spettacolo di Aldo, Giovanni e Giacomo non è “cinema” come lo intendono i critici.
Non c'è storia, regia, montaggio: solo un'accozzaglia di sketch teatrali mediamente divertenti, talvolta esilaranti, spesso meno. Ma cosa definisce l'esperienza cinematografica? In un mondo in cui il “cinema” viene visionato sui cellulari, sugli Ipod, sui computer, nella lavatrice, insomma in qualsiasi luogo purché non sia una sala buia insieme ad altre persone, vale la pena ricordare che l'essenza del “cinema” in realtà è proprio questa: una trance collettiva indotta dalla visione di immagini a 24 fotogrammi al secondo, all'interno di un luogo buio a ciò esclusivamente deputato.
Il resto – le teorie, gli attori, le follie dei registi – sono contingenze, destinate a svanire nel nulla. Quando decine di persone condividono la stessa emozione di fronte a uno schermo illuminato, tutte insieme e ognuna per conto proprio, quello è “cinema”, perché il cinema è della gente. E non importa se proietti la settimana Incom, Fellini, Jerry Lewis o Aldo, Giovanni e Giacomo. Finché c'è gente al cinema, il cinema esisterà. Tutto il resto è video.
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Sofia o Antonietta?
Maria Antonietta, la moglie di Luigi XVI, era finora nota ai più per l'immortale frase “Il popolo ha fame e non c'è più pane? Dategli delle brioches”. Un'ingiustizia storica per Sofia Coppola, che ci mostra invece la vicenda di una quindicenne sola, scaraventata al fianco di un salame di marito. Costretta a rifugiarsi (poverina) tra balli sfarzosi, vestiti, diamanti e collezioni di cani finirà ghigliottinata.
Come film storico, Marie Antoinette trascura forse un po' troppo la Storia. La ricostruzione della Versailles del '700 è deliziosa, e l'idea di associare i costumi d'epoca alla musica rock, per quanto non nuova, funziona. Kirsten Dunst (la fidanzatina di Spiderman) è bravissima e il suo viso senza età le consente di essere credibile sia come quattordicenne che come trentenne. Ma l'imminente rivolta che cambierà la Francia e il mondo intero è appena accennata, e l'idea di far passare Maria Antonietta come un giglio travolto dagli eventi è bizzarra. È vero che lasciò l'Austria giovanissima per sposarsi, ma a quei tempi era abbastanza normale. E quando salì sul patibolo l'età dell'innocenza era finita da un pezzo. Un film discreto, insomma, da non perderci la testa.
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La vendetta di Uma
Non vorrei sembrare il Noam Chomsky dei poveri, ma ho sempre pensato che la subcultura dei supereroi rappresentasse una metafora della politica estera americana. Vorrà anche salvare il mondo, ma di fronte a un semidio onnipotente che può incenerirti con lo sguardo non sai mai cosa possa capitarti ed è meglio non trovarsi dalla parte dei nemici, neanche per sbaglio. Il che è esattamente quello che succede a Matt Sanders (Luke Wilson, I Tenenbaum).
Dopo aver sedotto la timida bibliotecaria Jenny (Uma Thurman) scopre che non solo si tratta della supereroina G-Girl, ma che la ragazza è anche supernevrotica, superinsicura e superappiccicosa. Quindi la scarica. La vendetta è altrettanto super: la macchina del poveretto finisce in orbita, il suo appartamento a pezzi e come regalo d'addio gli viene recapitato uno squalo vivo in camera da letto. “La mia super ex ragazza” ha un regista che la sa lunga in fatto di commedie come Ivan Reitman (Ghostbusters) e uno sceneggiatore politicamente scorretto come Don Payne (I Simpson), oltre a un cast di successo che include anche la reginetta delle pellicole demenziali Anna Faris (Scary Movie).
A uno spunto iniziale molto divertente segue uno svolgimento un po' a grana grossa, e il finale è deboluccio. Però si ride, soprattutto grazie a Luke Wilson, che sfoggia un aplomb alla Cary Grant davvero sorprendente.
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Quando si dice la sincronicità dell'universo. Non faccio tempo a scrivere che la qualità dei video forlivesi sul web è mediamente bassa che subito l'università propone un corso e un laboratorio gratuiti per giovani da 17 a 35 anni: il primo per formare gli aspiranti filmaker del terzo millennio, il secondo per realizzare una serie di cortometraggi. Il corso per registi avrà una durata complessiva di 70 ore suddivise in una fase teorica – storia e linguaggio del cinema – e una pratica – scrittura, pre-produzione, produzione (riprese) e post-produzione (montaggio) di un audio-visivo. Le lezioni si terranno tutti i venerdì pomeriggio dalle 16.30 alle 19.30 a partire dal primo dicembre presso l’aula anfiteatro della sede universitaria di via Pratella. Il laboratorio permanente di produzione audiovisiva coinvolgerà invece ragazzi e studenti universitari dai 17 ai 35 anni nella realizzazione di brevi cortometraggi della durata di 3-5 minuti. L’intenzione è quella di selezionare un gruppo di lavoro di tre o quattro persone che apprenderà nell’arco dei mesi tutte le conoscenze utili alla realizzazione di un audio-visivo e che collaborerà con il regista Alessandro Quadretti seguendo il processo produttivo in tutte le sue fasi, inclusa quella del casting degli aspiranti attori che si terrà il 2 dicembre al Teatro Il Piccolo. Per informazioni e iscrizioni: segreteria di Presidenza del Polo scienfico-didattico di Forlì, via Volturno n. 7, tel. 0543-374328, www.poloforli.unibo.it
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La fruizione del prodotto artistico che chiamiamo “cinema” si sta spostando inesorabilmente fuori dal luogo fisico che identifichiamo come tale. L’aspetto rilevante non riguarda tanto la mutazione del mezzo di riferimento, visto che i film si vedono in TV dagli anni Cinquanta.
Se c’è qualcuno che è così masochista da guardarsi un lungometraggio sul telefonino o sul tostapane, insomma, sono fatti suoi. La vera rivoluzione è un’altra, e concerne la democratizzazione di un mezzo che finora è stato per forza di cose elitario.
Basti pensare a fenomeni come Youtube e Google Video, che potenzialmente consentono a chiunque di rendere disponibili al pubblico globale i propri film, con la stessa dignità e rilevanza di qualsiasi altro tipo di contenuto. Per ora, in realtà, più che altro si gozzoviglia. Inserendo la parola chiave “Forlì” (la città in cui vivo) in tali siti, ad esempio, ho potuto ammirare diversi episodi di goliardia psicotica, variopinta propaganda, un razzo alimentato a caramelle e le istruzioni di un paio di concittadini per creare una sorta di bombetta molotov all’acido, con tanto di disclaimer “don’t try this at home”.
Un livello così basso mi tranquillizza. La diffusione ad ampio raggio di una tecnologia, infatti, di solito genera l’aumento spropositato dei produttori di contenuti “artistici” a scapito del numero dei potenziali destinatari. Conoscete qualcuno che potendo vantare un pollice opponibile non abbia ancora partorito un romanzo, un atto teatrale, un musical, una canzone, un quadro, una scultura? Vi prego di presentarmi questo genio raro. Tutti artisti, niente arte. Tutti registi, niente cinema.
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Il fantasma di Woody
Sondra Pransky è una studentessa di giornalismo americana in visita a Londra. Una sera, partecipando allo spettacolo del Mago Splendini (alias Sid Waterman, un prestigiatore di terza categoria), alla ragazza appare il fantasma di Joe Strombel, un giornalista defunto che è fuggito dalla barca di Caronte per annunciare una notizia sensazionale: il famoso killer dei tarocchi è in realtà l’aristocratico Peter Layman.
E’ questo lo “Scoop” di cui parla il titolo del nuovo parto di Woody Allen, che a settant’anni e passa continua a sfornare pellicole di un certo successo, complice la capacità di assemblare attorno a sé cast di grido a basso costo.
Questa volta i nomi “in” includono Scarlett Johansonn e Hugh Jackman, oltre ad Allen medesimo, ma il risultato non è dei più brillanti: Scoop è una farsa a tratti gradevole ma priva di mordente, in cui il compiacimento per le atmosfere british e l’amore per i film d'annata non riescono mai a far decollare l’attenzione degli spettatori al di là della cortesia che si deve a un vecchio maestro. La trama traballa e, quel che è peggio, latitano le battute che hanno reso famoso il regista. Non importa, "Match Point" non è lontano. Provaci ancora, Woody.
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